"Clamoroso al Cibali!". La frase passata alla storia, gridata al microfono di "Tutto il calcio minuto per minuto", è una delle tante che la buonanima di Sandro Ciotti avrebbe regalato ai calciofili del Belpaese. 4 giugno 1961, minuto 70: Salvador Calvanese, oriundo argentino, ha appena bissato la prodezza del compagno Castellazzi a metà primo tempo. Il 2-0 del suo Catania all'Inter, di fatto, consegnò lo scudetto di stagione alla Juventus dell'ultimo Boniperti capitano. Ma il guizzante attaccante rioplatense, paisà del pallone come tantissimi suoi connazionali approdati sugli italici lidi nei favolosi Anni Sessanta del boom economico, per un paio di annate - prima di rimettere piede alle pendici dell'Etna - fu tra i re di Coppe dell'Atalanta. Negli annali della Coppa Italia 1963, unico trofeo finito nella bacheca altrimenti disadorna della ninfa che fa battere il cuore agli appassionati all'ombra delle Orobie, c'è iscritto a caratteri d'oro anche il nome di questo vegliardo, oggi settantasettenne. Che quel 2 giugno a San Siro lasciò la ribalta al triplettista Angelo Domenghini, poi tra gli alfieri della Grande Inter herreriana. Nondimeno, nell'undici allo start c'era anche lui, che il 9 ottobre dello stesso anno, a Lisbona contro lo Sporting, per necessità contingenti - leggi: l'infortunio prepartita di Pierluigi Pizzaballa - fu costretto a giocare addirittura in porta in una match di Coppa delle Coppe che avrebbe trovato la doverosa rivincita solo nella primissima era Mondonico.
Nato a Buenos Aires il 17 agosto 1934 e ivi ritornato nel 1974 dopo che il bizzarro presidentissimo rossoblù Angelo Massimino lo aveva cacciato perché, da allenatore delle giovanili, il nostro non se la sentì di assumere la guida della prima squadra (già guidata nel '71-'72 in B), Calvanese - ribattezzato "Salvatore" dalla provincialissima Italia di allora - è una sorta di eroe sia per la squadra siciliana che per i bergamaschi. In campionato, 107 presenze e 24 reti con i primi, 37 e 8 per i secondi. Centravanti di manovra dai bottini tutt'altro che pingui, cresciuto in patria nel Ferrocarril Oeste e svezzato dal modesto Atlanta, aveva però la capacità - vedi episodi citati in premessa - di non passare inosservato. Nella cavalcata trionfale della Dea di Paolo Tabanelli - che nella linea di fuoco schierava Da Costa, il Domingo e Magistrelli, con Nova e il sudamericano riserve - verso la coccarda tricolore, di suo lasciò il sigillo del 2-0 al Bari, nei quarti di finale disputati al vecchio "Comunale", il 27 marzo 1963.
Senza contare l'epopea continentale al giro di corsa successivo, con Carlo Alberto Quario in panchina (sostituito nel proseguio, il 3 febbario del '64, dal mito Carletto Ceresoli). Una marcia arrestatasi al primo turno, ma solo dopo lo spareggio di Barcellona. Nella gara di andata, a Bergamo, il bonaerense portato nel calcio nostrano dal Genoa nel lontano 1959 infilò la palla del vantaggio a sedici minuti dalla fine, precedendo il raddoppio di Domenghini. Poi, nel ritorno perso 3-1, l'inedita maglia da titolare fra i pali, quando l'1-1 del danese Christensen al 18' aveva illuso tutti. Quattro giorni dopo, l'altro 3-1 subìto in remuntada, con Chico Nova nelle vesti di apripista di un sogno bruciato in fretta. Tornato a Catania, vi avrebbe smesso i panni da calciatore nel 1967. Allenò anche il Siracusa, prima del rientro alla base. Augurissimi.
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