Il secondo dopoguerra e il suo cielo colorato di nerazzurro, per dimenticare i sulfurei nembi dell'immane tragedia bellica in una Città dei Mille da ricostruire. Quando essere atalantino e bergamasco costituiva un binomio inscindibile. A maggior ragione se ci si sapeva fare con il pallone tra i piedi. Oppure se quell'attrezzo di cuoio si era capaci di sradicarlo come pochi dagli arti inferiori altrui, facendo valere muscoli e fegato. L'identikit del terzino anni Cinquanta, il ritratto di Gian Battista Rota detto Titta, che oggi spegne settantanove candeline. Dall'oratorio di Borgo Palazzo alla prima squadra, in carniere anche due presenze in Nazionale alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, e poi gloria oltre confine: nell'aristocratico Boilogna e nella Spal, prima del ritorno alla base in tempo per vincere l'unico trofeo in bacheca, la mitica Coppa Italia del 1963.
Altri tempi, con il menù dello sportivo condito dalla passione e dalla classe artigianale di idoli per tutte le tasche, popolani alla mano che concretizzavano con le gesta sul campo i sogni di riscatto della gente comune, il cuore oltre l'ostacolo e il vigore fisico spesso usato per annullare l'estro e la tecnica degli avversari più talentuosi. Eppure la primissima immagine che Titta imprime nella sua storia personale e in quella della Dea è l'incredibile record dei cinque gol in cinque match, nella stagione 1950/51: da difensore schierato in attacco per necessità, l'aitante terzino dalle gambe di granito svezzato al calcio nel "borgo" contribuisce da per suo alla salvezza mettendo a segno le prime e uniche reti di tutta la propria carriera. Un'epoca aurea per lo sport più amato dagli italiani, che sotto l'egida della ninfa più veloce vide crescere all'ombra delle Orobie Gaudenzio Bernasconi, Livio Roncoli, Giulio Corsini, Giancarlo e Giuseppe Cadè. Rota sarebbe poi passato nelle file rossoblù, nel '54, con il maturo polesano Giovanni Cattozzo a fare il percorso inverso, in uno dei colpi da novanta lungo l'asse tra la nostra terra e la via Emilia: da laggiù. anni più tardi, sarebbe arrivato Humberto Maschio, mentre sotto le Due Torri il Sessantotto è legato all'approdo nella città del dottor Balanzone del bomber Beppe Savoldi da Gorlago.
Ne avrebbe lasciate altre, di impronte nel calcio nostrano, il buon Titta dall'espressione bonaria e dai modi affabili. Un annetto a Ferrara propedeutico al già ricordato rientro alla casa madre nel 1961, per chiudere a 32 anni con il solo, preziosissimo segno più nel palmarès: la coccarda tricolore sulla maglia. Quindi, la lunga parentesi da girovago della panchina, allenando in mezzo al mare magnum della provincia (Cremonese, Piacenza - portato dalla C2 alla B - e Lecco fra le tante tappe), dal 1976 al 1980, anche la sua ragione profonda, il suo primigenio trampolino di lancio, l'inizio e la fine degli sforzi professionali di tutta una vita. All'attivo, la promozione in A nel 1977 - con il tredici calato nella porta avversaria da Ezio-goi Bertuzzo, quando un certo Antonio Percassi faceva ancora lo stopper - per poi retrocedere al termine della stagione 1978-79. In anni più recenti, oltre a concedersi qualche sprazzo nelle vesti di commentatore televisivo e opinionista d'eccezione, anche l'incarico di presidente del Club Amici dell'Atalanta. Trovare un cuore più nerazzurro del suo, francamente, è un'impresa titanica. Tanti auguri.
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