(di Carmine Ubertone) - Paura, malinconia, stanchezza ma anche coraggio da eroe e voglia di salvare il maggior numero di vite umane. Ecco la testimonianza di un infermiere di un'azienda ospedaliera della provincia di Brescia - ai microfoni dei colleghi di TuttoNapoli.net - di origine campana, trapiantato in Lombardia. L’infermiere F. D. B. è intervenuto ai nostri microfoni raccontandoci in prima persona l’esperienza Coronavirus passata sulla sua pelle e tutto ciò che accade per via dell’inferno Covid-19:
IL CONTAGIO - “A fine febbraio, quando non era ancora un’emergenza, ho avuto un contatto stretto con un paziente chirurgico post-operato, asintomatico dal punto di vista respiratorio. Dopo 3-4 giorni la medicina del lavoro mi ha annunciato che tale paziente era positivo al Coronavirus. Intorno al 4 marzo ho cominciato ad avere pochi decimi di febbre, avevo dolori muscolari e una stanchezza fisica micidiale, legate all’intensa attività lavorativa del momento. Il 12 marzo invece, durante un turno di lavoro, ho cominciato ad avere dispnea (respiro difficoltoso) e anosmia (perdita di gusto e olfatto). Gli esami diagnostici hanno mostrato un versamento pericardio e un’ossigenazione un minimo ridotta per il mio stato di salute, pertanto mi hanno sottoposto al famoso “tampone” che 24 ore dopo è risultato POSITIVO, avevo il Covid19. Inizia l’isolamento e la quarantena. Ho la fortuna di avere una casa grande che mi ha permesso di isolarmi completamente dal resto della famiglia. Mia moglie mi cucinava e mi portava il pasto su per le scale, evitando così ogni minimo contatto. A casa ho avuto molto tempo per pensare al grosso rischio che mia moglie (in dolce attesa) e le mie due figlie hanno corso vivendo gli stessi ambienti, ma le misure preventive adottate in casa prima del boom dei contagi hanno avuto l’esito sperato, nessuno della mia famiglia si è ammalato. Dopo pochi giorni dall’inizio della quarantena ero fermo a letto, brividi, sudorazioni notturne, forti dolori muscolo-scheletrici su tutto il corpo, appena mi alzavo compariva tachicardia e dispnea (affanno), e la paura di peggiorare era sempre nei miei pensieri, avevo visto con i miei occhi cosa poteva fare questo virus. Per fortuna, pian piano i sintomi sono regrediti e dopo due settimane sono stato sottoposto ai 2 tamponi di controllo, risultati entrambi negativi. Il primo Aprile sono finalmente rientrato a lavoro, felice di poter dare il mio contributo per la lotta al Covid-19”.
FARMACO ANTI-ARTRITE - “Lo stiamo usando anche qui su tanti pazienti, questi però devono essere prima segnalati. Ogni giorno l’AIFA fa degli studi su questi pazienti per capire se migliorano le loro condizioni. Al momento dei veri e propri risultati incoraggianti non ne abbiamo. Poi dipende sempre da che tipo di paziente è”.
DATI OMESSI - "Vivendo di persona tale emergenza da fine febbraio, sono molto sensibile agli aggiornamenti che quotidianamente la protezione civile riporta ai cittadini. Più volte viene affermato che nelle Rianimazioni Lombarde non vi siano criticità: per un ospedale come il nostro creare 2-3 nuove postazioni di terapia intensiva in poche ore non è affatto semplice. Ci siamo riusciti facendo grossi sacrifici, spingendo oltre le nostre forze fisiche e mentali. Il sistema sanitario lombardo ha retto solo grazie allo spirito di abnegazione di medici, infermieri, operatori di supporto e tecnici di vario tipo. Poi con l’arrivo di nuovi infermieri e rianimatori, in pochi giorni, siamo passati da 4 a 19 posti di terapia intensiva, più del quadruplo. A un certo punto avevamo 290 Covid19 in tutto l’ospedale, senza contare tutte le decine di pazienti critici trasferiti in giro per la Lombardia alla ricerca di un posto letto in T.I. Dire che nelle rianimazioni non ci sono criticità è falso".
I GIOVANI - “Il Coronavirus non attacca solo gli anziani, nel nostro ospedale sono arrivati anche giovani. L’esempio è un ragazzo di 38 anni senza patologie, con moglie e figli. E’ stato ricoverato in reparto col casco C-PAP, poi appena si è liberato un posto in rianimazione lo abbiamo intubato. Prima dell’intubazione lui ha voluto fare una videochiamata alla moglie spiegando quello che stava accadendo. Le sue ultime parole al personale sanitario prima di essere addormentato sono state: “Ehi mi raccomando, guarda che ho una moglie e un figlio che mi aspettano, portami fuori da qua' vivo”. Da quel giorno sua moglie e suo figlio non l’hanno più visto. Attendono ansiosamente la telefonata giornaliera che il medico effettua per aggiornarli sulle condizioni del loro caro, le quali migliorano molto lentamente. Per noi operatori, ma soprattutto per i familiari, questi sono momenti duri, consapevoli che quella telefonata può essere un punto di svolta verso la guarigione o verso la morte".
PICCO - “Siamo nel pieno del picco, le rianimazioni sono sature, le misure di restrizione servono perché non arrivano ondate di pazienti, i pronto soccorso sono meno pieni di prima e gli accessi sono diminuiti. Ora non bisogna allentare le restrizioni, perché uscendo da casa, stiamo di nuovo punto e daccapo. Quello che sta facendo De Luca in Campania è un qualcosa di grandioso, il suo esempio è da seguire: avrebbe potuto portare benefici a tutto il territorio nazionale".
STATO EMOTIVO - “Fino a prima di sapere che fossi positivo ero demoralizzato, per questo virus ho visto morire famiglie intere, nonni, genitori e figli, momenti che noi sanitari ci porteremo dentro per sempre. Durante la quarantena, nonostante il malessere fisico mi tenevo aggiornato tramite colleghi e medici sulla situazione in ospedale, avevo voglia di tornare a lavoro il prima possibile, e questo mi ha permesso di rientrare con un piglio diverso, una grandissima voglia di contribuire nella lotta al Covid-19. Ho deciso, come del resto anche i miei colleghi di non soffermarmi a pensare troppo a quello che fino ad ora è successo, perché è vero, prima o poi finirà, ma nel frattempo non tutto è andato bene”.
Autore: Redazione TuttoAtalanta.com / Twitter: @tuttoatalanta
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